IX.

L’Umanesimo

1. Umanesimo e Rinascimento

Il Quattrocento trova il suo centro animatore nell’Umanesimo e si può schematicamente dividere in una prima parte del secolo in cui l’elaborazione della nuova visione della vita, delle nuove idee, della nuova filologia, storiografia, pedagogia, poetica impegna ed assorbe le forze degli uomini di cultura, e in una seconda parte in cui piú sicuramente la letteratura esprime ed esalta poeticamente la nuova concezione umanistica ed apre la via all’epoca del primo Cinquecento che tradizionalmente viene denominata Rinascimento.

E l’epoca rinascimentale riprenderà e rinnoverà gli ideali umanistici con una tanto maggiore pienezza e concretezza creativa, con un nuovo slancio di idealizzazione e di armonia e con un nuovo approfondimento di pensiero e di esperienza della realtà, superando certi pericoli di evasione, di sogno idillico e letterario che possono riscontrarsi nella letteratura del tardo Quattrocento e insieme maturando una nuova crisi dei propri valori che verrà dispiegandosi nel pieno del Cinquecento, nella civiltà del manierismo e della Controriforma.

Quanto all’inizio della vera e propria epoca umanistica sarà bene ricordare che, se noi abbiamo parlato piú volte per Petrarca e Boccaccio, e magari per certi ambienti veneti, di preumanesimo, questo stesso termine voleva indicare non una facile e intera continuità fra Trecento e Quattrocento, fra epoca medievale nel suo declino e Umanesimo nel suo inizio, ma un preannuncio di elementi che non trovavano ancora un loro circolare equilibrio a causa della resistenza di elementi della civiltà e della mentalità medievale in crisi.

Ora, quegli elementi trovano una loro giustificazione piú intera ed organica, un loro principio animatore centrale e fondamentale solo nel Quattrocento e nella visione umanistica della vita, nella chiara coscienza umanistica di rappresentare una nuova concezione e prospettiva valida e organica come era stata, in altra direzione, quella medievale, dominata da una centrale concezione trascendente della vita, mentre l’epoca umanistica è dominata da una centrale valutazione positiva delle forze dell’uomo e della sua esistenza terrena.

Non occorrerà certo (secondo idee critiche e storiche ormai superate) istituire un duro e antistorico contrasto, a bianco e nero, fra un Medioevo oscuro e rozzo e un Umanesimo tutto luminoso e fervido di vita e di arte. Ché abbiamo già visto nei capitoli precedenti quanta vita culturale e letteraria abbia riempito i secoli ancora medievali del Duecento e del Trecento. Ma la valutazione positiva e storica dell’epoca medievale-comunale non esclude la possibilità e la necessità di una distinzione fra le direzioni ideali e culturali, letterarie di quell’epoca e quelle della nuova civiltà umanistica.

2. Umanesimo e studio dei classici

Quali sono i centri animatori, le idee nuove del Quattrocento umanistico? In primo piano si presenta vistosamente quella volontà di riscoperta e di ripresa della lezione esemplare del mondo classico, della civiltà e perfezione umana e artistica degli antichi greci e latini, che, già apparsa nella complicata e tormentata prospettiva del Petrarca, si fa, nel Quattrocento, dominante e diffusa in ogni aspetto piú notevole e significativo della cultura e della letteratura del tempo, insinuandosi quasi sempre persino nelle zone piú attardate e ancora in parte legate alla civiltà trecentesca.

L’antica civiltà e l’antica letteratura si presentano agli occhi dei letterati e degli umanisti come un mondo storico e ideale di altissima perfezione a cui essi vogliono riavvicinarsi con amore e con studio, riprendendone e imitandone l’esempio, le direttive ideali, i metodi pedagogici e morali, le forme di espressione e di linguaggio letterario.

Per attuare tutto ciò occorreva anzitutto ricercare e ritrovare testi classici andati perduti e dispersi. Donde quella attività di esplorazione nelle biblioteche dei monasteri già iniziata dal Petrarca, e che porterà a tante scoperte salutate con entusiasmo dal mondo culturale umanistico. Occorreva ristabilire la lezione precisa di quei testi, studiarli e comprenderne il retto significato, commentarli e inquadrarli nella cultura del loro tempo.

E si formava cosí quell’agguerrita filologia umanistica che comporta insieme lo sviluppo di una coscienza critica e storica ben diversa dall’atteggiamento della cultura medievale che, considerando i classici antichi, a sua conoscenza, in funzione del loro immaginato preannuncio delle virtú cristiane e subordinandoli alle proprie diverse esigenze religiose e morali, meno sentiva il bisogno di conoscerli e interpretarli nella loro storica e artistica realtà.

E, a sua volta, questo studio dei classici alimentava e rafforzava negli umanisti una tendenza sempre piú forte ad una visione della vita ben diversa da quella medievale, dominata dal primato della religione, della teologia, di un mondo ultraterreno, di fronte al quale la vita terrena appariva sostanzialmente disprezzabile o valutabile solo come esercizio di virtú religiose in vista della conquista della beatitudine celeste.

La visione umanistica della vita si volgeva invece a valori piú mondani ed umani e, anche quando non rinnegava valori religiosi e virtú cristiane, mirava a fonderli con quelli piú umani e mondani in un processo di spiritualizzazione che non escludeva mai la radice essenziale della dignità e complessità dell’uomo, della sua volontà e capacità di agire e di conoscere, di muoversi nel mondo della natura di cui l’uomo vuole comprendere le leggi, come vuole, ancor piú, comprendere le leggi della natura umana e della storia umana senza risolverle nel puro e semplice volere divino.

Ho detto sopra che lo studio dei classici alimentava e rafforzava tale visione della vita negli umanisti. E infatti essi anche in questo studio, nella loro cura filologica, nelle stesse forme di imitazione e di emulazione dei classici in direzione espressiva e letteraria, riconoscevano una sostanza di educazione dell’uomo, un modo della sua formazione morale e culturale intera: donde il nome stesso di umanesimo che deriva da quelle «humanae litterae» di cui gli umanisti parlavano come appunto di uno studio atto alla formazione dell’uomo, contrapponendolo allo studio pedantesco e vuoto, alla conoscenza di verità astratte ed inutili, alla scolastica medievale sillogistica e schematica.

Cosí, soprattutto, deve essere ben chiaro che la riscoperta e lo studio dei classici non furono la causa meccanica dell’umanesimo, né questo fu una semplice e assurda restaurazione del mondo antico. Ché lo stesso rivolgersi al mondo classico era motivato da un piú profondo moto storico e culturale, le cui prime radici si affondano nella crisi stessa della civiltà medievale, nell’insoddisfazione delle nuove generazioni di fronte ai valori, ai metodi, alla visione della vita che avevano dominato in quella, nell’aspirazione e nella tensione crescente a una concezione piú terrena ed umana, ad una nuova presenza ed efficienza dell’uomo e delle sue forze nella storia, ad una affermazione della sua intelligenza e della sua ragione, come capaci di intendere e agire in una vita non piú concepita come breve passaggio alla vera vita dell’oltretomba, ma sentita nella sua complessa e pur non incomprensibile realtà.

E cosí l’incontro con i valori del mondo classico e il rafforzamento e affinamento che tale incontro forniva al nuovo pensiero, al nuovo atteggiamento di fronte alla vita, presuppongono una volontà e un’aspirazione formatesi nella crisi del Medioevo e senza di cui l’Umanesimo apparirebbe come un movimento archeologico, pedantesco, e non come quel potente e rivoluzionario momento della storia su cui si appoggia tutto lo sviluppo della civiltà moderna, incentrata in un crescente, anche se tortuoso e complesso, moto di affermazione della centralità dell’uomo, della sua forza di conoscenza e di azione entro la realtà, sempre piú indagata e conosciuta nelle sue leggi e messa in rapporto con la storia e la civiltà umana.

Né dovrà dimenticarsi come questo eccezionale avvio della civiltà moderna non sia stato un astratto prodotto intellettuale, ma abbia tradotto in termini di cultura, di filosofia, di pedagogia, di letteratura, un rivolgimento profondo di tutte le condizioni politiche, sociali ed economiche della storia fra Trecento e Quattrocento, specialmente in Italia dove l’Umanesimo ha la sua maggiore forza e si manifesta con un chiaro anticipo rispetto alle sue manifestazioni in altre nazioni europee.

Il logoramento degli ideali universalistici e metafisici della filosofia medievale corrisponde al pratico decadere della forza politica dell’Impero e della Chiesa, come l’esaltazione delle energie individuali, delle forti personalità, corrisponde al disgregarsi della forza politica dei comuni, all’affermarsi delle signorie e degli stati principeschi, al particolarismo e all’individualismo che prevalgono sul senso piú collettivo e comunitario della vita politica medievale.

3. Il pensiero umanistico

I grandi temi umanistici della dignità e della potenza umana, riscattate dalla svalutazione della filosofia medievale scolastica, che subordinava la filosofia alla teologia e l’esistenza terrena e le facoltà dell’uomo alla loro destinazione di preparazione alla vita ultraterrena e alla visione di Dio, innalzando cosí l’atteggiamento ascetico e contemplativo al di sopra di quello razionale ed attivo, trovano vasta espressione nella rinnovata meditazione filosofica del Quattrocento e specialmente nell’ambiente speculativo fiorentino. In questo, già nella prima metà del secolo, spicca il trattato De dignitate et excellentia hominis di Giannotto Manetti (1396-1450) che, in polemica con la trattatistica medievale, afferma ed esalta appunto la dignità e l’eccellenza dell’uomo, presentato come un «dio mortale», destinato all’immortalità celeste, ma già, nella sua vita terrena, capace di crearsi, con le proprie forze intellettuali, un regno mondano a suo modo già perfetto.

Poi, nella seconda metà del secolo, la sempre piú sicura conoscenza della filosofia greca (agevolata dalla presenza in Italia di dotti bizantini esuli a causa della conquista turca di Costantinopoli) offre ai pensatori fiorentini l’appoggio del pensiero di Platone. E questo filosofo viene contrapposto ad Aristotele maestro della scolastica medievale, ed esso (amato anche per la sua grandezza di scrittore e di creatore di splendidi miti filosofico-poetici) permette ai nuovi pensatori di dare alle proprie esigenze umanistiche uno slancio ideale piú alto, una prospettiva di nuova religiosità in cui le stesse persistenti istanze cristiane venivano tradotte in forme nuove di religione naturale, comune a tutti gli uomini, incentrata nella tendenza dell’anima umana ad innalzarsi progressivamente e per sua forza dalla conoscenza attiva della natura e del mondo a quella di Dio, a cui l’uomo si assimila già nella sua ricerca mondana di gloria, di eternità delle sue opere, nell’esercizio della sua intelligenza.

Che è, in sintesi, la posizione del neoplatonismo fiorentino e del suo maggior rappresentante: quel Marsilio Ficino (1433-1499) che fondò e animò l’«accademia platonica» fiorentina e fu autore di opere, come la Theologia platonica, essenziali nella formazione di un pensiero che permea di sé la cultura umanistica matura e che, mentre prepara le basi della componente platonica e idealistica del Rinascimento, come vedremo a suo tempo, opera già attivamente nella diffusione di idee ed atteggiamenti spirituali e intellettuali propagati nell’ambiente letterario del tempo da altri scrittori piú direttamente preoccupati di una traduzione letteraria di quelle. Come è il caso di Cristoforo Landino (1424-1498), importante sí per trattati piú chiaramente filosofici (le Disputationes camaldolenses che celebrano l’uomo come equilibrio di facoltà attive e contemplative, come dominatore della natura e della fortuna e anello essenziale fra il mondo materiale e quello divino), ma piú ancora per opere critiche, come il commento alla Divina Commedia, in cui le idee neoplatoniche divengono elementi di una poetica e di un gusto che danno alla poesia il valore di una rivelazione bella e sensibile di ideali perfetti ed eterni e degli elementi divini che sono nell’uomo e a cui l’uomo tende senza rinnegare asceticamente la sua umanità ed anzi esaltandola come già disposta ad una ascesa alla bellezza perfetta e immortale.

Ed anche Pico della Mirandola (1463-1494), il famoso giovane principe emiliano che in Firenze completò il suo pensiero (già arricchito di varie esperienze culturali nelle università europee), in un contatto originale e personalissimo con l’ambiente fiorentino, pur cercando una piú vasta e ambiziosa sintesi di platonismo e aristotelismo, di civiltà occidentale e di civiltà orientale (grazie alle sue prodigiose conoscenze anche della cultura araba ed ebraica), trovò il centro della sua filosofia pur sempre nella rivendicazione dei diritti del pensiero umano, della potenza creatrice dell’uomo, concepito (soprattutto nel trattato De hominis dignitate) come sintesi di tutto il creato, come «microcosmo» capace di conoscere il mondo terreno e il mondo divino, come libero artefice della propria sorte.

Il motivo centrale e fondamentale del pensiero umanistico è dunque quello della dignità e della libertà dell’uomo, sentito con appassionato entusiasmo anche quando le basi filosofiche differiscono (come nel caso di Pico rispetto a Ficino e Landino), anche quando piú forte è l’esigenza di non perdere gli elementi cristiani e religiosi.

Da questo motivo centrale derivano direttamente anche le nuove tendenze dell’educazione consolidate nella prassi pedagogica di educatori e creatori di scuole di fanciulli e di adolescenti, come Vittorino da Feltre (1373-1446), il quale nella sua «casa gioiosa» a Mantova concretamente attuò un tipo di educazione mirante allo sviluppo armonico ed intero delle energie spirituali e fisiche, della piena «humanitas» dei suoi discepoli, associando insieme alla lettura dei classici e allo studio della filosofia antica lo studio delle scienze, l’esercizio della musica e della ginnastica, la pratica di una convivenza serena e seria.

Da quanto si è detto può capirsi come l’Umanesimo non rappresenti un netto rifiuto di ogni istanza e fede religiosa e magari una specie di moderno «paganesimo», privo di ogni elemento cristiano.

È certamente sbagliato ridurre l’Umanesimo in una prospettiva «pagana» e addirittura anticristiana ipervalutando certe manifestazioni di particolari circoli e personalità umanistiche che riprendono magari la datazione «ab urbe condita» o parlano di Dio come padre degli dei e Giove massimo (che piú spesso è soprattutto un aspetto del loro esasperato classicismo e del loro travestimento classico del mondo contemporaneo) o ipervalutando il significato di aspetti viziosi del costume di alcuni umanisti.

Ma è anche errato fare dell’Umanesimo solo una forma di fusione fra elementi della spiritualità classica ed elementi di quella cristiana e di una subordinazione dei primi alla spinta fondamentale dei secondi, disconoscendo la novità rivoluzionaria dello spirito critico del razionalismo e del naturalismo dell’Umanesimo e ipervalutando l’ossequio degli umanisti alla Chiesa e la loro pratica della religione tradizionale.

Sta di fatto che all’interno del complesso movimento si trovano correnti e personalità di diversa direzione e di diversa interpretazione delle nuove istanze e che la qualifica di «umanesimo cristiano» pertiene direttamente solo a personalità che pongono l’accento fondamentale sull’elemento religioso cristiano e a volte polemizzano con gli aspetti troppo mondani, con l’eccessivo valore dato all’arte, da loro riscontrati nel prevalente indirizzo della cultura dell’epoca. Come sarà il caso del frate agostiniano Luigi Marsili, del cardinale Giovanni Dominici, del monaco camaldolese Ambrogio Traversari, o di Tommaso Parentucelli di Sarzana, che divenne papa col nome di Niccolò V.

Ma, mentre questi stessi uomini collaborano all’attività filologica, al gusto della rinnovata bellezza antica (e proprio Niccolò V sarà promotore attivo della nuova civiltà artistica e letteraria a Roma, iniziando il mecenatismo della corte papale), nel piú generale movimento umanistico gli stessi elementi religiosi vengono sostanzialmente vissuti in una prospettiva molto diversa da quella medievale, con una diversa e piú positiva valutazione della vita terrena, con una diversa impostazione filosofica che si allontana da quella scolastica tomistico-aristotelica, e con una sostanziale, anche se variamente intensa, insistenza sui grandi temi umanistici della dignità e libertà dell’uomo.

Cosí, pur notando subito che in ambito umanistico manca ancora la decisione ardita che sarà caratteristica di piú avanzate posizioni rinascimentali, ciò che preme rilevare è il fatto che la civiltà umanistica, nel suo insieme, si fonda su elementi effettivamente nuovi e preparatori della civiltà moderna.

E perciò occorrerà guardarsi anche da certi eccessivi atteggiamenti di svalutazione dell’Umanesimo come momento intimamente reazionario e conservatore, perdendo di vista il filo rosso della sua rivolta antiscolastica e antimedievale, della sua prevalente considerazione della realtà mondana e soprattutto umana, della sua preoccupazione per la vita degli uomini, per la loro civiltà, per le loro espressioni culturali e artistiche.

Alla storia del passato non si può chiedere una risposta uguale alla nostra contemporanea e meglio giova comprenderne gli elementi positivi di rinnovamento senza i quali le nostre stesse posizioni attuali non si sarebbero formate e maturate.

E cosí, se l’Umanesimo ha chiari limiti di prudenza e di compromesso, ciò che piú conta è l’elemento di novità e di apertura che entro quei limiti pur si afferma e si esprime.

4. Il costume degli Umanisti

Ugualmente sarà errato considerare sotto una luce tutta negativa, e con un rigido paragone con concezioni maturate tanto piú tardi, dal Settecento in poi, il costume, il modo di vita, la concezione del letterato e della sua funzione quali si manifestarono (e con indubbie varietà) nell’epoca umanistica.

Certo il mecenatismo, con cui i principi proteggevano e utilizzavano la nuova cultura e letteratura anche a vantaggio del proprio prestigio e della propria organizzazione politica, centralistica e assolutistica, e l’accettazione di quello da parte dei letterati e degli uomini di cultura dell’Umanesimo (specie nella seconda parte del secolo quando si consuma per ragioni storiche l’Umanesimo civile del primo Quattrocento di cui poi parleremo), appaiono a noi elementi di un costume inaccettabile e magari ripugnante e immorale fino al caso estremo di letterati che, come Francesco Filelfo di Tolentino (vissuto alla corte dei Visconti e degli Sforza a Milano, e autore di un poema latino encomiastico in onore degli Sforza), fecero della loro cultura e della loro abilità di scrittori uno strumento di guadagno e di onori e avvilirono la professione letteraria svuotandola di ogni significato morale e ideale al servizio del proprio tornaconto piú meschino, adulando principi generosi o ricattando e minacciando principi avari.

E certo tale pratica e concezione del letterato sarà inizio di una lunga tradizione italiana interamente rotta da nuove e piú profonde istanze letterarie-morali solo nell’epoca illuministica e preromantica (e soprattutto, con diversità che allora indicheremo, dal Parini e dall’Alfieri) e preparerà quella figura mai interamente scomparsa del «letterato» qualunquista e indifferente alle sorti della nazione e dell’umanità, pronto a mettersi al servizio dei potenti e delle classi dominanti, considerandosi responsabile solo dell’eleganza e perfezione dei suoi prodotti letterari, mantenuti in clima di rarefatta e aristocratica distanza dagli impegni morali e sociali e dalla interpretazione dei bisogni e delle esigenze della storia concreta della propria epoca.

Ma (a parte il fatto che, come dicevo, tale pericolo si consolida soprattutto nella fase piú matura della civiltà delle signorie e dei principati del secondo Quattrocento, e che non mancano casi e figure assai diversi da quello del Filelfo, anche là dove si tratti di letterati «protetti» dalle corti e dai principi) l’importanza positiva dell’Umanesimo non può essere negata solo da questo punto di vista, che ha pure un suo nocciolo di positività quando si pensi che nell’esasperata valorizzazione della sola responsabilità letteraria ed artistica pur si traduceva un importante elemento della civiltà umanistica; quell’esigenza del compiuto possesso tecnico dello stile per cui l’arte superava la sua funzione pedagogica medievale e, seppur con chiari pericoli di edonismo e di formalismo, affermava una sua particolare dignità e autonomia.

Né in concreto la posizione cortigiana di un Poliziano o di un Pulci priverà la loro poesia di ragioni personali e storiche pur genuine e importanti.

5. Esaltazione della vita e sentimento della sua caducità

Un altro punto da chiarire bene in questa presentazione generale della spiritualità del Quattrocento umanistico è l’incontro fra il valore nuovo dato alla vita terrena e il sentimento della sua brevità e caducità, che non manca davvero in una civiltà mal rappresentabile solo come epoca spensierata e godereccia.

E del resto se in Italia vi è pure un lungo periodo di pace nella seconda metà del secolo, dalla pace di Lodi del 1454 alla calata di Carlo VIII nel 1494, nella vita delle città e degli stati non mancano avvenimenti luttuosi, congiure e dure repressioni, lotte di famiglie potenti per la conquista del potere, minacce di invasione da parte dei Turchi (i quali nel 1480 compirono uno sbarco nella penisola salentina e fecero un’orribile strage della popolazione di Otranto), e quelle epidemie paurose di peste che piú volte infierirono in varie città e regioni italiane.

E tuttavia, come vedremo, nella concreta poesia di scrittori come il Poliziano o Lorenzo de’ Medici, il sentimento della caducità e della morte non suscita tanto nello spirito del tempo una risonanza drammatica quanto un sentimento di malinconia che aggiunge una sfumatura pensosa al predominante tono di vitalità, di eleganza e di armonica bellezza, o che stimola, per contrasto, un piú forte bisogno di fruizione e di godimento di beni caduchi, di breve durata, e perciò tanto piú desiderati ed esaltati. La bellezza, la gioventú, la primavera, divengono cosí concreti simboli di una vita a cui manca la sicurezza persuasa di una continuazione oltreterrena, e che gli uomini del Quattrocento sentono di dover perciò affrettarsi ad affermare e godere prima della inevitabile insidia del tempo, della vecchiaia, della morte.

I famosi versi di Lorenzo il Magnifico vanno cosí intesi come espressione piú scoperta di un sentimento centrale della matura spiritualità quattrocentesca, anche se la letizia che essi invocano con cosí balda impetuosità si realizza in forme varie e complesse di saggezza, di serietà laboriosa, di affermazione di un equilibrio armonioso nella concezione filosofica, nella attività politica, nell’esercizio dell’arte e della letteratura, e non si riduce a un godimento puramente sensuale e volgare.

Quant’è bella giovinezza

che si fugge tuttavia!

Chi vuol esser lieto sia.

Di doman non v’è certezza.

6. Firenze e l’Umanesimo civile di primo Quattrocento

Si dovrà dire ancora che l’Umanesimo, in una sua prima fase, si manifesta in forme che respingono tanto piú chiaramente una sua definizione in termini di pura letteratura, senza impegni etico-politici e solo in funzione di una civiltà cortigiana e mecenatesca.

Ché anzi, a guardare soprattutto al centro piú vivo e precoce della nuova cultura umanistica, Firenze, ma anche considerando il centro culturale veneziano dominato dalla figura di umanisti seriamente impegnati nella vita civile della loro repubblica, come Francesco ed Ermolao Barbaro, ben si può giungere a quella indicazione di un primo umanesimo «civile» che serve insieme a scandire un ritmo di svolgimento della storia dell’Umanesimo e a precisare un primo periodo umanistico nel quale piú intensamente si associano preoccupazioni letterarie e culturali e impegni morali e civili, in un’attività fervida di scoperta e studio dei classici, di impostazione di nuovi metodi filologici e critici, di ricerca di un linguaggio latino piú puro e classico di quello medievale (ma insieme adatto a esprimere sentimenti e idee moderne), di esaltazione e difesa di nuovi ideali piú umani e terreni, di esercizio epistolare privato e pubblico legato all’attività diplomatica e di governo della repubblica fiorentina, di storiografia e di eloquenza ispirate alla illustrazione e difesa della gloriosa storia di Firenze e della sua attuale indipendenza, libertà e resistenza alle pressioni esterne di altri Stati italiani e alle minacce interne di forze miranti alla instaurazione di una signoria.

Non per nulla i due maggiori rappresentanti di questo umanesimo civile fiorentino, il Salutati e il Bruni, furono cancellieri del comune (come lo fu poi il Bracciolini) e alla sua difficile difesa interna ed esterna, come alla sua nuova vita culturale e civile, indirizzarono la loro attività di scrittori e di uomini di cultura.

Cosí Coluccio Salutati (1331-1406), di Stignano in Val di Nievole, discepolo ed amico del Petrarca, fu insieme scopritore delle lettere familiari di Cicerone, promotore della conoscenza e dell’insegnamento del greco a Firenze (dove fino dal 1396 fece chiamare come insegnante di greco nello Studio il bizantino Manuele Crisolora), attivissimo scrittore di epistole e di trattati (in un latino chiaro e sciolto, agevolato dall’esempio ciceroniano e ormai diverso da quello medievale, anche se di quello adopera ancora alcuni vocaboli) nei quali difese la repubblica fiorentina contro le insidie dei Visconti di Milano, e il proprio ideale di un governo moderato-oligarchico borghese contro i pericoli della demagogia e della tirannide, e insieme presentò l’ideale del cittadino e dell’uomo libero, virtuoso, attivo, volto ad usare la sapienza politica e l’arte letteraria al servizio dell’utilità comune in una larga visione umana che non escludeva la religione, nella sua accezione piú intima e spontanea, ma combatteva il rigorismo ascetico e dogmatico e l’astrattezza della filosofia scolastica medievale.

E, nella prospettiva aperta dal Salutati, l’opera della nuova filologia, con le sue scoperte e il suo studio dei classici, l’elaborazione del nuovo pensiero con i suoi temi umanistici della libertà, dignità e capacità conoscitiva ed attiva dell’uomo, si uniscono all’esercizio e all’espressione delle virtú civili e morali.

Alle nuove importanti scoperte e allo studio di antichi testi latini e greci contribuirono, nell’ambiente fiorentino, Niccolò Niccoli, il Bruni, il Bracciolini. Ma essi, e specialmente il secondo, non si limitano a quest’attività. E Poggio Bracciolini, di Terranova nel Valdarno (1380-1459), non fu solo il piú infaticabile e fortunato scopritore di codici antichi, grazie alle sue esplorazioni in biblioteche monastiche svizzere, tedesche, francesi, ma fu anche (seppure con una minore energia morale rispetto al Salutati e al Bruni) fine ed acuto scrittore di dialoghi filosofici e di lettere, in cui la visione umanistica della vita si arricchisce di un piú deciso amore per i beni mondani, di una piú varia attenzione a forme di società, di costume, di realtà umana e naturale, cosí come il suo latino si fa piú spigliato e capace di effetti pittorici, riflessivi, umoristici e magari estrosi e bizzarri che prevalgono nelle sue vivaci e pungenti Facetiae.

E cosí Leonardo Bruni di Arezzo (1374-1444) fu insieme traduttore dal greco e originale scrittore di epistole e trattati intesi sia ad appoggiare la ricerca del nuovo pensiero su di una migliore conoscenza della sapienza antica, sia a propugnare il nuovo uso del latino che egli considera superiore per dignità e ricchezza al volgare, sia ad esaltare Firenze per la sua gloria passata e presente, sia a tracciarne la storia (nella Historia fiorentina) ricostruendone criticamente le vicende e nobilitandola come continuazione delle virtú civili della repubblica romana anche mediante un certo eccessivo travestimento classico di figure e avvenimenti moderni, che è segno comunque di un’abilità e tendenza oratoria e letteraria non separabile però dalla sua funzione di stimolo a virtú morali e civili.

7. Umanesimo e letteratura volgare fiorentina a fondo etico-civile

Alla fase dell’umanesimo civile fiorentino possono essere attribuiti anche scrittori che usano il volgare e che nei loro scritti, variamente colti e di maggiore o minore intenzione letteraria (storie della città, memorie cittadine e domestiche, epistolari), esprimono, lungo tutto il Quattrocento, ideali di civile convivenza, di difesa della libertà e dell’ordine cittadino (fra adesione piú aperta al vecchio ordine comunale e repubblicano, coscienza della sua crisi e accettazione del nuovo ordine mediceo), di esempio di comportamento pubblico e privato, avvivato dal sentimento di una continuità tradizionale e da un nuovo e piú centrale sentimento dell’attività umana e della dignità personale e civile.

Sarà questo il caso di cronisti fiorentini come Giovanni Cavalcanti (il piú personale e vigoroso, il piú vicino ad un senso complesso della storia e della concretezza degli avvenimenti e dei problemi politici nelle sue Istorie fiorentine), come Bonaccorso Pitti (dallo stile semplice e rapido, corrispondente al gusto piú cronachistico e aneddotico della sua Cronaca), come Goro Dati (con la sua Istoria di Firenze dal 1380 al 1405 e con il suo efficace e vivo Libro segreto). O sarà il caso del mercante e politico Giovanni Morelli (che nel suo libro di Ricordi, artisticamente assai valido, narra insieme vicende pubbliche e private, illuminate dal suo vagheggiato ideale di una vita saggia e tranquilla, dal caldo mondo degli affetti familiari) o della gentildonna Alessandra Macinghi Strozzi, autrice di lettere indirizzate ai figli lontani e rispecchianti la sua forza d’animo, la sua accorta saggezza di massaia, la freschezza e spontaneità della sua esperienza in una lingua fiorentina parlata e vivacemente dialettale.

Mentre, in un piú diretto e stretto rapporto con temi e modi della cultura umanistica, a cui partecipò anzitutto con la sua intensa ed intelligente attività di libraio e di trascrittore di testi antichi e moderni, il fiorentino Vespasiano da Bisticci (1421-1498) va ricordato per quelle Vite di uomini illustri cosí interessanti sia per le notizie che ci danno su tanti principi e letterati del Quattrocento, sia per la freschezza di tante sue pagine ispirate al gusto umanistico delle grandi personalità e al suo piú popolaresco e ingenuo amore per la cultura e la letteratura.

E ancor maggiore attenzione merita il fiorentino Matteo Palmieri (1406-1475) che, diretto allievo di maestri umanisti ed egli stesso figura rilevante nella vita culturale umanistica della sua città, nonché autore di varie opere storiche in latino, espresse le sue idealità spirituali e civili (appoggiate ad una forte lettura dei classici latini e greci, ma rese piú concrete dalla sua esperienza di uomo e di cittadino) in un trattato in volgare, Della vita civile, molto notevole per lo stile complesso ed efficace e per la forza persuasiva con cui vi vengono illustrate e affermate le virtú umanistiche della temperanza, fortezza, prudenza e giustizia, mediante le quali il fanciullo deve essere educato e l’uomo deve realizzare la sua dignità e libertà nella vita individuale e in quella, superiore, della comunità familiare e politica. Molto meno notevole invece è il suo poema, La città di vita, faticoso e prolisso nel suo arduo sforzo di dar vita poetica a un tema teologico (quello dell’origine delle anime umane identificate con gli angeli che rimasero neutrali nel conflitto fra Dio e Lucifero) complicato da ricordi danteschi e da applicazioni della dottrina neoplatonica tanto diffusa nella Firenze di secondo Quattrocento.

8. Svolgimento dell’Umanesimo fiorentino

Nello svolgimento della civiltà umanistica, in cui Firenze occupa un posto di particolare importanza e centralità, va rilevato fortemente un passaggio complesso e vario, ma schematicamente rappresentabile nelle sue piú spiccate componenti.

Da una parte si assiste, in campo filologico e culturale, ad una maggiore precisazione e approfondimento dei metodi di studio sempre piú affinati, critici e scientifici, cui corrisponde una sempre piú vasta applicazione del metodo filologico a tutti i campi del sapere e della scienza e, nella imitazione dei classici e nell’uso del latino, una doppia direzione. Quella che trionfa soprattutto in Firenze ad opera del Poliziano e che consiste nella scelta di una intelligente e libera utilizzazione dei testi classici a seconda delle esigenze del nuovo scrittore; quella che si fa strada soprattutto nell’ambiente romano ad opera dell’umanista Paolo Cortese, e che avrà larga diffusione nel Cinquecento, con influssi anche nella prosa volgare: e che consiste nella piú o meno rigida imitazione di un solo autore classico, Cicerone.

Ma piú importa notare, nel passaggio dalla prima fase umanistica al suo sviluppo nel secondo Quattrocento, due altri aspetti essenziali.

Da una parte la diffusione piú vasta e profonda dei fondamentali ideali umanistici, dello spirito dell’umanesimo, che permea ormai piú radicalmente ogni aspetto della vita e della cultura del Quattrocento e che permette il passaggio dalla cultura alla poesia, da una fase di studio e di preparazione culturale, filologica, filosofica ad una fase in cui, accanto all’approfondirsi e modificarsi delle forme di studio e di cultura, di filosofia, lo spirito umanistico si esprime poeticamente nelle opere, soprattutto in volgare, di molti poeti e prosatori: e basti fin da ora ricordare almeno il Poliziano, il Pulci, Lorenzo de’ Medici, il Boiardo, il Sannazaro, l’Alberti e Leonardo.

Dall’altra, guardando soprattutto a Firenze, si osserva un declino dell’Umanesimo civile e della sua forza di impegni pubblici e morali, relativo al consolidarsi della forma di governo principesco, della vita cortigiana, della diminuita vivacità dialettica della politica interna e della partecipazione dei singoli alla politica cittadina. Mentre nel pensiero filosofico si pronuncia sempre piú quel movimento neoplatonico che corrisponde ad un bisogno di idealizzazione variamente operante nella storia spirituale e culturale dell’epoca.

Il neoplatonismo e la sua spinta idealizzante implicano infatti diversi risultati e aprono la via a diverse direzioni attive poi nel Rinascimento di primo Cinquecento.

Positivamente il neoplatonismo rafforza quel bisogno di armonia, di completezza, di circolarità fra ideali e realtà, fra uomo, mondo, divinità, che è comunque profondamente diverso dalla relazione medievale di tipo nettamente trascendente e di netta subordinazione della terra e dell’uomo rispetto a Dio e alla vita ultraterrena.

Ma insieme il neoplatonismo incoraggia ad un abbandono degli impegni civili, ad una evasione dai problemi piú concreti della città degli uomini verso forme misticheggianti di adorazione della bellezza e della spiritualità. Si tratta, ripeto, di fenomeno assai complesso e mal riducibile ad una semplice negatività. E tanto piú nel Rinascimento idealismo e realismo troveranno un loro singolare equilibrio, superando, nel suo momento piú denso e originale, i pericoli di evasione e di idealizzazione a sfondo spiritualistico che si erano manifestati nell’indirizzo neoplatonico dell’ultimo Quattrocento.

9. Il progresso della filologia umanistica: Lorenzo Valla

Il pieno sviluppo dello spirito critico, della scienza filologica e del gusto storico-estetico dell’Umanesimo trova un’esemplare espressione nella personalità e nell’attività del romano Lorenzo Valla (1407-1457), prima professore di eloquenza a Pavia, poi, dopo brevi soggiorni a Milano, a Genova, a Firenze, segretario a Napoli del re Alfonso d’Aragona, e infine a Roma segretario apostolico e professore di eloquenza nello Studio dove ebbe scolari gli umanisti Platina e Pomponio Leto, fondatore dell’Accademia romana di indirizzo prevalentemente filologico ed archeologico.

Il Valla applicò la sua formidabile preparazione culturale e la sua mente robustamente critica e dialettica a diversi campi di studio, manifestando in alto grado il nuovo atteggiamento e le nuove possibilità della matura filologia umanistica: atteggiamento critico, ostile ad ogni pregiudizio e ad ogni affermazione non confermata dalla ragione e dalle prove di fatto. Come il grande studioso dimostrò sia nei suoi trattati di argomento filosofico-religioso (De voluptate, De libero arbitrio, Dialecticae disputationes), in cui audacemente polemizza contro i teologi della scolastica medievale, sia in quelli di argomento giuridico in cui afferma, contro i giuristi incolti e sofistici, i princípi del diritto romano, sia in quelli piú direttamente pertinenti al comportamento morale e religioso (come il De professione religiosorum), in cui combatte la vita monastica ed esalta la vita attiva, sia infine nell’importantissimo scritto di carattere storico De falso credita et ementita Constantini donatione, in cui, con un insieme imponente di prove filologiche e storiche, egli dimostrò la falsità del famoso documento della donazione al papato del dominio di San Pietro da parte dell’imperatore Costantino, distruggendo cosí, contro una lunga e profonda tradizione medievale, le basi legali del dominio temporale dei papi.

Dove si può chiaramente vedere come la filologia e la critica umanistica potessero implicare conseguenze di grande importanza anche pratica, incidendo su problemi politici, distruggendo miti e credenze a cui si legano tanti aspetti della civiltà medievale.

E d’altra parte, per quel che riguarda il gusto estetico e linguistico del pieno Umanesimo, il Valla con i suoi libri Elegantiarum latinae linguae portava a piena maturazione l’ideale di una lingua latina elegante e perfetta, appoggiata a regole ed esempi precisi tratti soprattutto dal modello di Cicerone e indagata con raffinata sensibilità estetica nelle sue piú riposte bellezze.

10. Le accademie

Un aspetto caratteristico della vita culturale umanistica è rappresentato dalle accademie che raccolgono in un rapporto, prima inesistente, i dotti e i letterati promovendo il loro spirito di emulazione e di collaborazione, favorendo le loro discussioni e la comunicazione reciproca dei risultati delle loro ricerche e dei loro studi, permettendo l’intrecciarsi, a volte, di nuovi rapporti fra le varie accademie in una nuova articolazione e circolazione della cultura su piano nazionale e in una collaborazione nuova di interessi variamente orientati a seconda delle diverse accademie. Fra le quali spiccano per importanza l’Accademia fiorentina (fondata da Marsilio Ficino) con interessi soprattutto filosofici di indirizzo neoplatonico, l’Accademia romana (fondata da Pomponio Leto) con interessi soprattutto archeologici e storici, l’Accademia napoletana o pontaniana (fondata dal Panormita e portata a maggiore attività dal Pontano) con interessi filologici e letterari prevalenti.

Né si dimentichi il fatto che le accademie, favorite dal mecenatismo dei principi, ben corrispondevano, per la loro organizzazione libera da ogni ingerenza ecclesiastica e per il loro alto carattere culturale, al sostanziale laicismo dell’Umanesimo e al suo ideale di collaborazione fra uomini di alta cultura e di pari dignità culturale costituenti un ceto particolare e importantissimo nella società del tempo: un ceto che aveva caratteri e interessi propri e che si rafforzava nel nuovo rapporto di discussione, di scambio epistolare, mentre utilizzava, per la diffusione delle sue idee, ad un livello piú vasto, la nuova invenzione della stampa, a sua volta appoggiata dai consigli e dalle cure editoriali di letterati e dotti che permisero ai tipografi di farsi presto veri e propri editori capaci di assecondare validamente esigenze vere e proprie di cultura e di letteratura.

11. Altri aspetti della letteratura volgare umanistica di primo Quattrocento

Neppure del tutto estraneo all’esigenza dell’ambiente umanistico fiorentino può considerarsi il maggiore rappresentante di una poesia burlesca che, se può riallacciarsi alla tradizione toscana comico-realistica del Due-Trecento, non rappresenta però la pura e semplice continuazione di quella, portando in sé quel nuovo gusto dell’intelligenza e della «facezia» che è pur caratteristico della cultura umanistica e che trovava espressione, ad esempio, nelle Facetiae del già ricordato Bracciolini.

Infatti nei sonetti del barbiere fiorentino Domenico di Giovanni, detto il Burchiello (1404-1449), una materia umile e triviale, la rappresentazione comica di ambienti sordidi e bassi, che fanno ripensare alla materia di Cecco Angiolieri e di altri rimatori comico-realistici medievali, si complica con un giuoco dell’intelligenza piú estroso e bizzarro, con l’uso maligno e satirico di un linguaggio furbesco, allusivo, grottesco ed oscuro che giunge sino a bisticci e associazioni di parole per noi incomprensibili quanto a preciso significato del discorso, ma non privi di un effetto paradossale e suggestivo di suoni e di immagini che implica una particolare sapienza formale raccordabile con il nuovo gusto umanistico delle risorse infinite della parola e una disposizione di giuoco ardito e intelligente. Giuoco che sarà ripreso, a ben piú alto livello e con diversa funzione espressiva, dal Pulci o proseguirà, su di un terreno piú scopertamente comico e satirico, nei sonetti di Antonio Cammelli, detto il Pistoia dalla città natale (1430-1502), che unisce, nella sua produzione, rime burlesche piú di maniera a sonetti satirici e polemici, piú vigorosi e significativi, rivolti ad obbiettivi e avvenimenti storici, come i sonetti contro la Curia romana o quelli sulla calata di Carlo VIII in Italia.

E se l’abbondante fioritura, nel Quattrocento, di poesia popolare può essere ricollegata a tendenze e generi della letteratura trecentesca, l’uso che di tali forme e materie vien fatto da uomini di cultura umanistica (lo vedremo nel caso di Lorenzo de’ Medici o del Poliziano) è ben caratteristico della nuova letteratura quattrocentesca che gode di riprendere modi e argomenti di tono popolare rinnovandoli in un’arte sapiente e colta che insieme gusta la freschezza e la naturalezza di elementi e toni popolari e se ne compiace con la superiorità dell’intelligenza e dell’arte.

Tale è, già nella prima metà del secolo, il caso del patrizio veneto Leonardo Giustinian (1388-1446) che, mentre è esponente attivo e colto dell’umanesimo civile della sua città ed efficace scrittore latino nelle sue lettere, realizza il suo gusto tutt’altro che sprovveduto ed ingenuo nella ripresa sapiente, equilibrata e fresca della lirica popolare amorosa riuscendo ad evitare la sciatteria e la grossolanità della piú comune produzione popolare senza perderne la vivacità, la spontanea efficacia, le direzioni musicali e pittoresche (accentuate dall’uso del dialetto veneziano) riportate, con una luce di simpatia per il popolo, in un’arte piú armonica e proporzionata.

Da tale prospettiva nascono strambotti e soprattutto canzonette di soggetto amoroso, in un dialetto veneziano reso piú aggraziato e musicale da una mano di artista (le cosiddette veneziane o giustiniane), che ebbero larga diffusione e particolare influenza sullo sviluppo di una poesia veneziana popolareggiante e colta.

Non si tratta certo di grande poesia, ma la misura, il garbo elegante e semplice, la grazia musicale delle canzonette del Giustinian, l’incontro di freschezza e di equilibrio artistico, fanno di esse uno dei prodotti piú attraenti, piacevoli e vivi della letteratura volgare di primo Quattrocento.

12. Latino e volgare

Lo strumento linguistico inizialmente fondamentale dell’Umanesimo è il latino: non il latino medievale e della scolastica, da cui i primi umanisti cercano di liberarsi come da un linguaggio barbarico e rozzo, ma il latino elegante e limpido dei classici antichi a cui, come abbiamo visto, gli umanisti si ispirano o imitando alcuni scrittori esemplari come soprattutto Cicerone, o piú liberamente foggiandosi un latino che utilizzava i piú diversi scrittori dell’antichità.

Il latino umanistico viene cosí contrapposto anche al volgare che gli umanisti, specie nei primi decenni del secolo, considerano come un linguaggio plebeo e inferiore, inadatto ad esprimere idee e sentimenti di alto significato e di profonda importanza. Sicché ai loro occhi anche i grandi scrittori volgari del Trecento, Dante, Petrarca e Boccaccio, perdono la loro alta esemplarità e vengono o trascurati o direttamente criticati e condannati. Che è il caso soprattutto di Dante e della sua Commedia, contro cui si precisano le accuse di scarsa eleganza, legata appunto all’adozione errata del volgare assolutamente incapace di esprimere i contenuti filosofici e teologici che il poeta aveva impiegato nel suo poema. Come viene chiaramente detto nei Dialogi ad Petrum Histrum scritti da Leonardo Bruni all’inizio del Quattrocento.

Tuttavia lo stesso Bruni, piú tardi, nel 1436, reagiva a questa posizione (che nei Dialogi citati era messa in bocca all’umanista Niccoli, uno degli interlocutori di quei dialoghi) e nella sua Vita di Dante affermava che anche il volgare era, come ogni lingua, suscettibile di una sua perfezione e nobiltà e che Dante aveva saputo servirsene con alta coerenza ed efficacia.

E, in anni di poco posteriori, Leon Battista Alberti nei suoi trattati piú decisamente ed attivamente si adoperava ad una nuova affermazione del volgare sia usandolo in alcuni dei suoi trattati, sia promovendo, nel 1441, in Firenze, una pubblica gara di poesia in volgare (il Certame coronario) destinata a provare praticamente che il volgare era in grado di corrispondere alle piú alte esigenze letterarie.

Prova che venne poi luminosamente data, nella seconda metà del secolo, sia dalla prosa dello stesso Alberti e di altri scrittori, sia dalla poesia dei maggiori poeti del tempo che nel volgare cercarono e trovarono lo strumento linguistico adatto all’espressione del loro mondo poetico.

Naturalmente il volgare di questa ripresa della poesia e della prosa nell’epoca umanistica matura era in realtà un volgare fortemente rinnovato da quello stesso studio dei classici, specie latini, che aveva costituito piú direttamente la base dello stesso latino umanistico e che, fondendosi con il rinnovato amore per la grande tradizione volgare italiana del Trecento (riaffermata nella sua validità linguistica e poetica da Lorenzo il Magnifico nel suo Comento, o dal Poliziano nella sua epistola inviata a Federico d’Aragona a nome di Lorenzo) e con lo stesso uso di forme piú popolari e quotidiane sapientemente rielaborate con un gusto complesso e aristocratico di eleganza e di freschezza, di armonia e di spontaneità, promosse la creazione di un linguaggio volgare umanistico originale e capace di alti risultati in poesia e in prosa.

Cosí, a parte l’uso diretto del latino che, come abbiamo visto e ancora vedremo, continua in tutto il Quattrocento, in un’attività letteraria spesso esercitata anche da scrittori prevalentemente attivi in volgare, la conoscenza e lo studio dei classici latini rimane fondamentale preparazione della stessa letteratura volgare, tanto che il Landino dirà, con affermazione di valore generale, che per «essere buon toscano» (e cioè buono scrittore in volgare italiano) è necessario prima «esser latino» (e cioè ben conoscere il latino dei classici ed esercitarsi direttamente in esso).

Ciò che sostanzialmente si verifica nella grande maggioranza dei casi, anche se con diversa utilizzazione personale della esemplarità dei classici latini e della struttura sintattica o dei termini lessicali del latino classico: che a volte è ripresa piú pesantemente o in relazione a piú intellettualistici esperimenti di arte eccessivamente colta e tecnica (di cui può essere esempio estremo il romanzo amoroso ed allegorico di Francesco Colonna, la Hypnerotomachia Poliphili, del 1467, con la sua prosa volgare, ma tutta ricostruita retoricamente su forme di stile latino e piena di crudi latinismi e grecismi), ma piú centralmente e proficuamente operante entro forme di prosa e di poesia che, come dicevo sopra, riescono a fondere originalmente questa esemplarità dei classici con la tradizione della letteratura volgare dei grandi scrittori del Trecento e con l’uso sapiente della freschezza di lessico e modi popolari. Con un incontro di aulico e di popolare, di eleganza classica e di vivacità popolare e realistica che è caratteristica della maggiore letteratura del secondo Quattrocento.